Marisa Merz

Unica donna a prendere parte al movimento dell’Arte Povera, nata a Torino  nel 1926 e scomparsa nel 2019, è per molti anni volutamente rimasta in ombra, quasi con atavica femminile deferenza, per lasciare spazio al marito Mario Merz, con il quale formava una coppia inseparabile.

Se nelle sue prime apparizioni, in linea con i dettami dell’Arte Povera, Marisa Merz ha prodotto perlopiù installazioni, utilizzando materiali sensibili, emettitori di energie, come il rame e il piombo, o oggetti leggeri, aerei, come delle sorte di nuvole in alluminio (Sculture viventi, 1966), negli ultimi decenni era tornata a utilizzare metodi più tradizionali, quali i pastelli o la creta. Sono perlopiù testine, prodotte con febbrile attività durante le notti insonni, i soggetti delle sue opere: più grandi, più piccole, ritratti di persone vicine o del tutto anonime, tracciate su carta con colori leggeri o realizzate come sculture colorate. Un lavoro ripetitivo, costante, in cui però ogni opera raggiunge una sua particolare qualità e delicatezza.

È proprio dopo la scomparsa del marito nel 2003 che Marisa Merz comincia a ottenere gradualmente sempre maggiori riconoscimenti internazionali. Presente nelle maggiori collezioni del mondo, dalla Tate al MoMA, nel 2013 le è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia.

Il costo dei suoi lavoro è ancora piuttosto basso rispetto ai riconoscimenti critici che riceve sempre di più nel mondo. Non sono molte le opere che vanno in asta; in ogni caso, negli ultimi anni, anche dei semplici disegni di grafite su carta sono riusciti a superare i 200.000 euro.

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