La pandemia sta producendo cambiamenti strutturali al sistema dell’arte
Fabio Cavallucci
Cosa sta succedendo nel panorama delle biennali e delle fiere internazionali col prolungarsi della pandemia?
Lo stop ai voli, le restrizioni agli assembramenti, i lockdown prolungati non sono ormai solo eventi passeggeri che mettono in difficoltà temporanea le varie organizzazioni, ma stanno cominciando a produrre cambiamenti strutturali nel panorama delle grandi manifestazioni artistiche e del sistema dell’arte in generale.
Si sta superando ormai l’anno intero di cancellazione delle fiere d’arte, visto che quella di Bologna, prevista per gennaio 2021, è già stata cassata, e Art Basel Hong Kong spostata (per il momento) a fine maggio. Dall’inizio della pandemia solo Art Paris, tra le major, era tornata in presenza al Grand Palais di Parigi i primi di settembre, riducendo un po’ il numero delle gallerie partecipanti per gestire il distanziamento (da 130 a un centinaio) e, pare, con buoni risultati in termini di vendite. L’altra fiera in presenza è stata 1-54 Contemporary African Art a Londra in ottobre, che per quanto abbia perduto per strada la fiera capitana, Frieze, di cui normalmente è un satellite, ha mantenuto l’apertura in solitaria, anche sullo slancio della tendenza al rialzo dell’arte africana e in genere all’arte black. Ma stiamo parlando di una fiera con 29 gallerie, la gestione dei cui flussi è cosa che non ha nulla a che vedere con quella delle grandi manifestazioni.
Così, con l’arrivo della seconda ondata, pian piano abbiamo dovuto osservare nuove restrizioni e chiusure. Abbiamo assistito ad una Artissima distribuita negli spazi dei musei di Torino, e anche alla private view di The Others, sempre a Torino, con l’insolita visita su appuntamento agli spazi vuoti. Per il resto le fiere hanno avuto un bel da fare a inventarsi virtual room, piattaforme online e altre formule digitali. Purtroppo i segnali del mercato sulle piattaforme web non sono positivi. L’arte online funziona quando le cifre restano basse e gli artisti sono molto noti. Per il resto, anche se complessivamente il mercato online è in crescita, è difficile convincere i collezionisti a trovare lì il luogo per i loro acquisti più importanti. Meglio, in questo, vanno le case d’asta, che soprattutto con le aste ibride, in parte in persona e in parte online, sembra abbiano trovato il sistema per affrontare questo periodo difficile ottenendo comunque dei top price, assolutamente importanti per trainare il mercato.
Il resto del mondo, comunque, non può godere molto di questi rilanci. Si tratta di fiere “interne” rivolte al mercato cinese, visto che le comunicazioni aeree internazionali sono praticamente chiuse mentre lì dove è nato, il Covid è quasi debellato, e il fatto che proprio a Shanghai si sia presentato un caso positivo poco prima delle apertura dell’Art Week era bastato a far scattare un surplus di controlli.
La situazione di stallo internazionale sta producendo problemi prima di tutto alle gallerie, ma poi anche alle fiere stesse. Le gallerie che se lo possono permettere fanno come Maometto. Se la montagna non va da lui è lui che va alla montagna. Molte hanno aperto filiali nei pressi delle residenze dei collezionisti miliardari. Pace non ha esitato a stabilire delle filiali sia negli Hamptons che a Palm Beach, luoghi dove i ricchi americani si ritirano per svernare in attesa che la pandemia si dissolva. Sotheby’s pure ha aperto dependance in entrambi i luoghi. Hauser & Wirth, per ora, solo negli Hamptons, dove qualcuno non ha esitato nemmeno a creare una fiera virtuale. Se le gallerie si arrabattano e le case d’asta cercano di rilanciarsi, più sofferenti sono proprio le fiere, soprattutto le major, le cui spese di gestione, anche in tempi di stasi, restano alte. Proprio Art Basel, che potremmo considerare “too big to fail”, ha dovuto vendere una buona parte delle sue azioni ai Murdoch per sopravvivere. Frieze New York, invece, ha già annunciato che nella prossima edizione, prevista per maggio 2021, anziché a Randall’s Island, si svolgerà a The Shed, la nuovo istituzione nata poco più di un anno fa a Manatthan e ora, parrebbe, già in difficoltà. È un modo per aiutarsi a vicenda, ma dalle circa 200 gallerie che prendevano parte alla fiera sotto il tradizionale tendone, ne resteranno soltanto 60 nell’edizione di Chelsea.
Se veniamo alle Biennali, la situazione è anche più complicata. Dopo una fila di cancellazioni e slittamenti (Biennale di Architettura di Venezia, Biennale di San Paolo, Biennale di Gwangju, tutte spostate al 2021) alla fine dell’estate hanno provato a mostrarsi in persona Manifesta (28 agosto-29 ottobre) e la Biennale di Berlino (5 settembre-1 novembre). Che dire? Un disastro. Manifesta è stata così sfortunata da aprire quest’anno a Marsiglia, che pochi giorni dopo si è rivelata la città col maggior numero di contagi prima del lockdown nazionale francese, costringendo la biennale a una chiusura anticipata. La Biennale di Berlino, anch’essa aperta in un momento di apparente miglioramento della situazione pandemica in Europa, si è ritrovata poi in mezzo alle restrizioni, e pertanto ha chiuso con un video: chi vuole la può vedere in rete. Ma ciò che è chiaro è che anche durante i periodi di apertura nessuno ha visitato dal vero queste due biennali, perché curatori, artisti e giornalisti, altrimenti così attivi nel viaggiare in lungo e in largo per non perdere nessun opening, durante la pandemia preferiscono evitare qualsiasi rischio. Delle due manifestazioni nulla o quasi è pervenuto sui social o sulla stampa. Potrebbero essere state le più belle biennali del mondo, ma nessuno lo saprà mai.
Anche peggio è andata per la Quadriennale di Roma, che dopo avere atteso quattro anni ha aperto al pubblico il 30 ottobre, per richiudere appena una settimana dopo a seguito delle restrizioni imposte dal governo. Qualche biennale, pur chiusa, prova a rilanciarsi sul web: la Triennale di Yokohama e la Biennale di Casablanca, ad esempio. La Biennale di Yerevan pure ha preparato una versione digitale con lavori realizzati appositamente, senonché in Armenia la situazione è precipitata per la guerra nel Nagorno-Karabakh, facendo decidere per uno stop all’evento di presentazione.
Anche qui un po’ meglio va per le biennali asiatiche: quella di Bangkok ha aperto il 31 ottobre, quella di Shanghai il 10 novembre, con un sistema di aperture progressive che continuerà fino a giugno 2021. Ma, al solito, la bassa attività di intercomunicazione di questo periodo rende questi eventi praticamente internazionalmente sconosciuti.
Questa situazione prolungata sta portando anche molte biennali ad attraversare delle crisi interne. Si è saputo pochi giorni fa che la direttrice della Biennale di Liverpool, la turca Fatos Üstek, ha lasciato l’incarico in ottobre ad appena un anno e mezzo dall’inizio della sua assunzione per divergenze con il board dopo che la biennale era stata posticipata al 2021. E chissà quante altre crisi interne questa fase di difficoltà sanitaria ed economica ancora porterà! C’è però anche chi, giustamente, sfrutta in modo positivo il periodo di chiusura e rallentamento: la Biennale di Urbanistica e Architettura di Shenzhen, ad esempio, ha commissionato uno studio per cercare di rinnovare il suo sistema di gestione e di finanziamento e diventare ancora più concorrenziale a livello internazionale. La Bi-City aspira a mantenere il primato di prima biennale al mondo dedicata all’urbanistica, ma anche a trovare un sistema che la liberi dalla burocrazia e le consenta di essere più aperta verso sponsor e sistemi di finanziamento privati. Altre ancora cercano alleanze: la Biennale di Praga, di Kiev, di Bucarest e di Varsavia hanno organizzato un simposio lo scorso settembre e lanciato un accordo chiamato EEBA (Eastern European Biennial Alliance). E Venezia? La biennale ammiraglia, modello per tutte le altre, dopo il recente rinnovo della presidenza passata da Paolo Baratta a Roberto Cicutto, non manifesta ancora segni di cambiamento. Intanto però qualcuno la urge: un appuntamento online del Forum dell’arte contemporanea italiana, curato da Vittoria Martini e Marco Baravalle, ha discusso qualche settimana fa la possibilità di un radicale ripensamento del sistema neoliberale, basato in primis sul mercato, su cui la Biennale di Venezia si è finora basata. Le bocce non sono ferme: nei prossimi mesi, se la pandemia perdurerà, vedremo ancora molti cambiamenti nel sistema dell’arte.
Immagine di apertura: The Other Art Fair, Torino
Eric Fischl, Art Fair, 2014
(Victoria Miro Gallery and Tanya Bonakdar Gallery)